HAIKU E FOSFENISMO

CHE COS’E’ UN HAIKU?

La storia di un genere nato da tornei poetici alla corte imperiale del Medio Evo

Da quando, nel diciannovesimo secolo, i fratelli Goncourt hanno fatto conoscere l’ haïku al mondo occidentale, l’incredibile fortuna dei suoi tentativi di trasposizione in altre lingue ha ben presto fatto dimenticare che esso è, ai giorni nostri, uno degli eredi di una tradizione classica che appartiene in sé al genio del popolo giapponese. Se questa breve composizione di diciassette sillabe che include un’allusione stagionale è un fenomeno poetico che suscita discussioni che vanno ben al di là del quadro culturale da cui ha tratto origine, la moda degli haïku scritti in inglese, in bretone, in francese o in fiammingo fa spesso pensare in modo irresistibile a quei curiosi che esclamano ridendo davanti ad un quadro astratto: «Io faccio la stessa cosa tutti i giorni!»

Alcuni occidentali hanno contribuito a far conoscere, con le loro traduzioni, l’autenticità di questa pratica poetica – pensiamo a Maurice Coyaud, e soprattutto a René Sieffert che ha tradotto le opere di Basho, il maestro di questo genere – e altri si sono sforzati di studiare ciò che diventava questa forma poetica una volta utilizzata in un’altra lingua, con tutti i tradimenti e i malintesi che questo genera – e pensiamo qui ai lavori di Etiemble.

Ma che cosa pensano i Giapponesi di questa ondata di entusiasmo per l’haïku? Si possono osservare parecchi atteggiamenti in proposito. Inizialmente c’è la sorpresa, il divertimento, poi a volte una certa tenerezza, come testimonia un universitario nelle colonne del giornale Mainichi: «Ci sono nel mondo delle persone che, ciascuna nella sua lingua, compongono dei poemi che chiamano haïku ad imitazione dell’haïku giapponese. Il termine haïku figura persino nei recenti dizionari britannici e americani (…). Si vedono anche dei poeti ai quattro angoli d’America comporre degli haïku a tendenza elegiaca (…). Parallelamente all’attuale entusiasmo per l’haïku in Giappone, esiste, a quanto sembra, un analogo fenomeno altrove. (…). E’ assolutamente simpatico e commovente che gli haïku giapponesi possano servire come legame di amicizia tra persone che non conoscono né i giapponesi né il Giappone».
Passando dallo stupore all’azione, con una reazione ispirata dal loro leggendario spirito pratico, i Giapponesi hanno cominciato ad organizzare dei concorsi internazionali di «haïku in lingua straniera», come quello organizzato dal Ve Festival della cultura, che si svolse nel 1990 nella città di Matsuyama nella prefettura di Ehime.

Al di là delle molteplici questioni che si possono formulare sulla sensibilità occidentale a proposito dell’haïku, al di là delle espressioni altrettanto brillanti per se stesse quanto certe composizioni poetiche – «trasalimento dell’emozione», «erbario vivente di verità immutabili», «ricerca del lampo», – che cos’è un haïku?

E’ prima di tutto una pratica sociale. E’ un genere nato dagli incontri poetici (uta-awase) che avevano luogo alla corte imperiale giapponese nel Medio Evo. Nel corso di questi tornei venivano elaborate delle creazioni collettive, le renga (versi incatenati), da cui l’haïku ha tratto origine. Basho stesso animava dei circoli di haïku, confrontando la sua esperienza con quella degli altri, discutendo della sua tecnica con gli allievi. Tutte le attività culturali, a maggior ragione quelle poetiche, erano in Giappone attività sociali. L’haïku ha oggi, in questo arcipelago, le sue scuole, i suoi allievi, le sue riviste (ottocento recensite recentemente), le sue correnti, i suoi concorsi e i suoi milioni di adepti.

Nei club di haïku ci si riunisce una volta al mese, e i poemi di ciascuno dei membri sono oggetto di dibattiti, discussioni, commenti e di un voto, testimonianza di un’autentica «democrazia letteraria». Tutto è organizzato in maniera competitiva, ove ogni compositore tende verso l’assoluta perfezione. Altre caratteristiche àncorano ulteriormente l’haïku nella specificità di una cultura e rivelano che si tratta qui dell’epifenomeno di realtà più profonde, più essenziali, al riguardo delle preoccupazioni fondamentali della storia dell’uomo.

L’haïku classico, così come ci è pervenuto, è strutturato su un ritmo di diciassette sillabe. Questo non è dovuto al caso.

In effetti, i più antichi poemi giapponesi riconosciuti, i Katauta, erano battuti su questo ritmo all’inizio della nostra era, riproducendo il modo respiratorio sul quale si costruiva allora la letteratura orale, prima dell’introduzione di una trascrizione con i caratteri cinesi. Queste formule ritmate, equilibrate sotto una forma «domanda-risposta», che si ritroveranno più tardi nei concorsi di poesia del Medio Evo, avevano una forte connotazione religiosa. Che l’haïku apparisse prima di tutto come un atto poetico non deve far dimenticare che i Giapponesi per molto tempo hanno avuto con la poesia dei rapporti in cui le preoccupazioni legate al mondo dell’invisibile non erano assenti. Diversi fatti storici lo attestano.

Alcuni alti personaggi storici giapponesi non disdegnavano di assistere alle riunioni poetiche, e di comporvi dei poemi prima di una battaglia, per attirarsi il favore degli dei. Akechi Mitsuhide, colui che avrebbe assassinato il famoso generale Oda Nobunaga nel 1582, partecipò alla vigilia del suo misfatto ad un concorso di renga. Un filosofo del 18° secolo, Fujitani Mitsue, dichiarò in un trattato di arte poetica che bisognava distruggere la costrizione delle parole che tenevano prigionieri gli dei. Gli dei sono comunque presenti nel momento del «capovolgimento delle parole» (logo), fenomeno che consiste nell’invertire l’ordine delle parole o delle sillabe per rinforzarne il senso o per nasconderlo. Gli dei Shinto sono così assimilati allo «spirito delle parole» (kotodama).

Nella tradizione popolare, numerosi poemi sono considerati come delle formule magiche in cui questo «spirito delle parole» è liberato dalla loro recitazione. Utilizzati a fini terapeutici, questi canti ritmati in trentuno sillabe (diciassette sillabe + quattordici) ricordano ancora questa relazione tra magia e poesia, mentre altre civiltà tradizionali dicono anche che ogni poesia è medicina. Il riferimento alla stagione che ogni haïku deve contenere è il segno che il suo autore è «in armonia con la natura». Ciò significa che una allusione obbligatoria ad una stagione in un poema è una sorta di riconoscimento esplicito del posto relativo dell’uomo nell’universo, dove gli avvenimenti umani non sono soltanto affare degli uomini.

Nel corso dei secoli, i Giapponesi hanno repertoriato, e poi classificato, tutti i segni, tutti i momenti caratteristici di ogni stagione, e ne hanno fatto degli autentici glossari che si sono arricchiti nel corso del tempo.

Questi glossari, che contengono oggi più di cinquemila «parole di stagione», sono prima di tutto dei manuali pratici che gli amanti dell’haïku consultano prima di comporre un poema. Vero tesoro della sensibilità giapponese, questi almanacchi poetici (i saijiki) sono, ci dice un poeta giapponese, Inoue Teruo, una «collezione dettagliatissima di date e di consuetudini commemorative del nostro popolo». Tali almanacchi poetici sono i supporti di una creazione di cui gli haïku non sono che i risultati visibili. Commentano e illustrano quindicimila haïku di autori conosciuti e sono il riferimento di ogni nuova composizione. La scoperta e l’apprendimento di questi almanacchi danno alla pratica degli haïku una chiarezza diversa e permettono una lettura giapponese del mondo.

Attraverso le «parole di stagione» compilate in questi almanacchi, assistiamo ad una ricostituzione permanente dell’universo dal popolo di questo arcipelago. E’ anche per questo che l’haïku è molto più di un evento letterario.

Per la sua storia, per ciò che è oggi in Giappone, l’haïku proviene più dall’etno-poesia che dalla poesia quale l’Occidente la concepisce.

Un esercizio interessante per tutte le persone che desiderano comporre un haïku, o qualunque altro tipo di poesia, consiste nel praticare ciò che il Dr LEFEBURE chiama Mixaggio Fosfenico in cascata.

Composizione di un haïku sotto fosfeni:

Fate un primo fosfene.
In questo fosfene mescolate un’immagine che simboleggia e riassume il soggetto del vostro studio. Durante la presenza del fosfene, arriveranno generalmente due o tre nuove idee decisamente differenti dalla prima.
Scegliete la più netta fra esse, e sarà questa seconda immagine che metterete in un secondo fosfene.
In generale, durante quest’ultimo, arriveranno allora quattro o cinque idee nuove.
Prendete la più netta e, a partire da questa, formate un tema di Mixaggio che metterete in un terzo fosfene.
Sorgeranno allora dieci o dodici idee nuove, e così via…
Il flusso di idee è come un fiume che nasce da una piccola sorgente, ma che non cessa di ingrandirsi con degli affluenti.