ARTI MARZIALI E FOSFENISMO

Ex maestro di arti marziali, spada Katana
Ex insegnante di Aikido

Il rapporto tra arti marziali e Fosfenismo può essere compreso solo conoscendo i concetti di base del Fosfenismo e tenendo conto della genesi delle arti marziali.

PRATICA DELLE ARTI MARZIALI E FOSFENISMO

Per capire le arti marziali bisognerebbe ricollocarle nel loro quadro originario e ristabilire il legame che esse hanno con il Fosfenismo. L’influenza del Fosfenismo nella storia dell’umanità è considerevole. Per misurarne appieno l’importanza, bisogna capire che cos’è il Fosfenismo.

I fosfeni sono tutte le sensazioni luminose soggettive. Per ottenere un fosfene basta fissare per trenta secondi una lampada bianca opalina da 75 watt collocata a due metri di distanza. Il post-fosfene consecutivo alla fissazione ha una durata di tre minuti.
Tutti gli studi storici di ordine culturale o di ordine religioso fanno riferimento al Fosfenismo, cioè all’utilizzo del fuoco e della luce. In effetti, tutte le grandi tradizioni spirituali o religiose hanno praticato la fissazione di sorgenti luminose.

Questo punto è completamente occultato: ci si attacca alla forma dei miti piuttosto che al loro insegnamento. Il primo ad aver messo in evidenza tutto questo è stato Francis LEFEBURE, medico e ricercatore francese. Egli ha scoperto il legame tra la fissazione di sorgenti luminose e le pratiche religiose, e ha messo a punto un insieme di tecniche destinate a sviluppare le capacità cerebrali.

Il Mixaggio Fosfenico consiste nel mescolare al fosfene (la macchia multicolore che compare nel campo visivo) un pensiero auditivo (la ripetizione mentale di una frase o di un mantra), o un pensiero visivo (ad esempio la visualizzazione di un movimento).

Il principio fondamentale del lavoro con i fosfeni nelle arti marziali è semplice: bisogna fare un fosfene, poi imprimere un ritmo regolare al corpo (kata), aggiungere un ritmo sonoro (kiaï), dare un ritmo al pensiero (visualizzazione, ripetizione), o mantenere un ritmo respiratorio particolare (kata respiratorio). Nel corso della pratica, tutti questi ritmi si sincronizzano, il che risveglia delle capacità molto elevate, in modo progressivo e tuttavia abbastanza rapido.

Per noi occidentali, il concetto di arti marziali indica essenzialmente le forme di combattimento asiatiche, anche se a volte ingloba delle attività satellite della pratica marziale propriamente detta: diverse tecniche di meditazione, di massaggio, di rilassamento, più o meno “tradizionali”.

Poi nella pratica marziale sono venuti ad inserirsi tutto un linguaggio, una terminologia, una retorica filosofica presi a prestito dai maestri d’arme: amalgama moderno di concetti cinesi, giapponesi, induisti, tibetani…

C’è una grande differenza tra ciò che i primi esperti giapponesi arrivati in Occidente facevano fare ai loro allievi e la pratica di oggi. Se l’esotismo delle arti marziali era attraente, la pratica era troppo dura, troppo arida, e si faceva senza spiegazioni di sorta, solo con l’esempio, cosa che ha allontanato più di una persona. Gli esperti furono obbligati ad addolcire la pratica, ad adattarla allo stato d’animo occidentale e, di conseguenza, a svuotare la loro arte della sua sostanza. Perché?

Precisamente perché si trattava di discipline marziali, ovvero di guerra, e che si trattava di vita o di morte.

Nel contesto della società asiatica di un tempo, colui che riusciva era incontestabilmente un artista nel senso più elevato del termine, perché aveva superato tutti gli sforzi fisici e psicologici. Aveva raggiunto uno stato di coscienza. Al di là di tutti gli aspetti tecnici, è questo stato che tutti ricercano, spesso per tutta una vita, ed era questo stato che faceva la differenza.

Ora, se è stato così semplice e così naturale fare un amalgama tra le concezioni asiatiche e induiste è perché esiste effettivamente un tratto comune tra queste culture. Non è facile scoprirlo perché la maggior parte dei concetti asiatici e induisti non ha degli equivalenti nelle nostre lingue. Termini come ki, chakra, Kundalini non evocano niente in molti dei nostri contemporanei.

E anche se li si incontra sempre più spesso nei libri, chi può vantarsi di aver “risvegliato i propri chakra” e chi può dire a che cosa questo corrisponde? In generale ci si rende conto che quelli che pretendono di riuscirci fanno essenzialmente un lavoro di immaginazione. Essi confondono percezione e immaginazione.

Quanto a Kundalini, tutti i libri esprimono la bellezza e la potenza di questa energia ma tutti affermano che è pericoloso risvegliarla. Non c’è forse qui una contraddizione? Questi libri non omettono forse di sottolineare che in realtà mancano parecchi elementi per comprendere ciò che Kundalini significa e a quale genere di fenomeni si ritiene debba riferirsi?

Inoltre, considerato il numero crescente di praticanti delle arti marziali, come è possibile che non ci sia una moltitudine di Maestri, fosse anche solo un centesimo del numero totale di praticanti? Senonché l’essenziale della sostanza marziale è assente dalla pratica.

Sono queste domande che permettono di comprendere il bisogno, la necessità di integrare alla pratica tutto un gioco di riferimenti pseudo filosofici, per far pazientare il praticante e colpevolizzarlo se non ottiene dei risultati che superano il quadro dei suoi sforzi fisici.

Riassumiamo queste domande in una sola: perché non si possono realizzare le stesse prodezze dei Maestri confermati?

Senza dubbio perché la risposta non si trova nella tecnica, e senza dubbio è altrove e non nella tecnica che essi hanno trovato la risposta. Tutti gli accostamenti filosofici del mondo non potranno cambiare nulla!

La principale constatazione che si può fare è che la maggior parte delle arti marziali sono state create da religiosi.

I guerrieri che hanno creato una tecnica o una forma di combattimento le hanno sempre realizzate durante un ritiro in un tempio o in un monastero, oppure allontanandosi dalla società per vivere nella natura “secondo la loro religione”.

Verso il 500 d.C., il monaco buddista Bodhidharma lasciò l’India dove era nato e si trasferì in Cina. Si presentò al celebre monastero di Shaolin, ma i monaci non vollero riceverlo. Così, per nove anni, meditò davanti al monastero. Là creò sotto forma di arte di combattimento gli stili interno ed esterno.

Lo stile interno (nei-chia) si impronta essenzialmente a far prendere coscienza al praticante del potenziale energetico che si trova in lui, a far salire questa energia, a svilupparla e a proiettarla.

Lo stile esterno (wai-chia) consiste in tecniche di corpo a corpo violente e fisicamente potenti.

Bodhidharma ha anche creato il Ch’an che diventò lo Zen in Giappone e al quale si interessa un buon numero di guerrieri.

E’ ugualmente un prete buddista, Won Kwang Bopsa, che in Corea creò il Hwa Rang Do, a vantaggio di un ordine di guerrieri d’elite, i Hwa rang, su richiesta del re Chinhung (540 A.D.).

Questi guerrieri erano conosciuti per essere temibili, e gli aneddoti nazionali vantano le prodezze di questi combattenti i cui piedi erano paragonati a delle sciabole tanto erano grandi la loro velocità e la loro potenza nel colpire. L’armatura di legno di un avversario poteva essere disintegrata da un colpo diretto, uccidendo l’uomo istantaneamente.

Su un’incisione che rappresenta un eroe coreano, il generale Yoo Shin Kim è in ginocchio con le mani giunte. La sua sciabola è posata su un altare di pietra, vicino a un vaso in cui brucia dell’incenso. Davanti a questo personaggio, un vecchio sta in piedi, appoggiato ad un lungo bastone. La legenda dell’incisione dice Il Generale Yoo Shin Kim sul monte Dan Suk, mentre pratica il Hwa Rang Do (611 A.D.). Ora, il generale non è rappresentato in combattimento, né mentre si allena al maneggio delle armi, ma fissa un raggio di sole che penetra nella grotta da un orifizio. La legenda dice proprio “…mentre pratica il Hwa Rang Do”. Le religioni asiatiche sono prima di tutto dei culti solari.

Nella concezione di questa arte marziale, i simboli di yin e yang (Um e yang presso i Coreani) dava i principi di base della tecnica (non sorprendiamoci di questo apporto cinese perché in Asia le influenze religiose erano reciproche. I Coreani sono del resto contemporaneamente confuciani, buddisti e cristiani). L’aspetto yin simboleggiava la luna, che rappresentava le tenebre, la flessibilità e i movimenti circolari, mentre l’aspetto yang simboleggiava il sole, che significava luce, durezza e movimento diretto.

Inoltre, come la maggior parte delle arti marziali, questa arte coreana non era considerata come un obiettivo in sé, ma come un “cammino” che permetteva di collegare l’universo interiore dell’Uomo con il Principio Universale (Hwa-Rang-Do).

L’ambizione dei creatori di arti marziali di elevare il concetto di combattimento a quello di via di compimento dell’individuo si ritrova in molte tecniche, siano esse induiste, coreane, cinesi o giapponesi. O almeno questo era vero in una certa epoca per il fatto che le arti marziali, in origine, erano legate molto strettamente alla religione.

Il termine “religione” deriva dal latino religare e significa “collegare”. Questo concetto è parallelo alla nozione asiatica di “via, cammino”; non è quindi sorprendente che, anche attraverso vie guerriere, i religiosi abbiano espresso a fondo la loro fede e le loro conoscenze. Bisogna concluderne che è in seno alle religioni asiatiche che le arti marziali trovarono il principio attivo che dava così tanta potenza ed efficacia a coloro che le utilizzavano.